Accuse dal palco agli avversari politici, ricorso inammissibile. Confermata condanna a Vaccaro
di Redazione
Sindaci contro, comizi senza esclusione di colpi, una campagna elettorale infinita che nel luglio del 2013 ebbe un sussulto non da poco: fioretto e sciabola, denti digrignati e toni aspri. Uno scontro che si consumò tra scambi verbali, vignette e volantini. A mettere la parola fine (fine?) è stata una sentenza della Cassazione che il 31 gennaio scorso, dopo due precedenti gradi di giudizio, ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dell’ex sindaco Calogero «Lillo» Vaccaro, confermando nei fatti la sentenza d’appello a suo carico: 6 mesi per diffamazione aggravata, il rimborso delle spese legali e il versamento di tremila euro nella cassa delle ammende.
Il casus belli trae soprattutto origine da un comizio elettorale. Siamo nelle settimane successive alla combattutissima disputa per le amministrative di Marianopoli. Vaccaro, candidato uscito sconfitto dalle urne dopo un testa a testa sul filo di una ventina di voti, si rivolge agli avversari alludendo a una certa «Cupola». Schermaglie politiche? Non per chi le subisce, leggasi il neo eletto sindaco (dell’epoca), Carmelo Montagna, il vicesindaco (oggi in carica) Salvatore Noto e il loro gruppo politico.
Sono storie che nei piccoli comuni pesano un po’ di più rispetto all’altrove: rimbombano tra i vicoli, risuonano nelle piazze. Echeggiano, ritornano. Così la disputa si sposta dal piano politico a quello giudiziario.
Partono le querele. Vaccaro ne deposita una per diffamazione nei confronti di Montagna e compagni, rei di aver divulgato volantini e vignette denigratorie nei suoi confronti. Le accuse però in aula non reggono.
Restano in piedi, invece, le contestazioni contro l’ex leader di «Serietà Impegno Competenza – Lillo Vaccaro Sindaco».
È dal palco della piazza che si profila l’ipotesi di reato.
L’ex sindaco definisce gli avversari politici una «Cupola amministrativa», apostrofa con l’appellativo di «Capo M.» (capo mafia?) un funzionario che ritiene vicino agli avversari, cita «Il Giorno della Civetta» di Leonardo Sciascia, opera che si dipana, come noto, fra intrecci e ingranaggi mafiosi.
Dal servizio scuola bus a presunte carriere “costruite” «perché, vi piaccia o no, le assunzioni si fanno con i concorsi pubblici non con procedure adattate a fare entrare il fratello del sindaco».
Poi critica un selfie, pubblicato su Facebook dall’assessore Maria Antonietta Vullo: tutti sorridenti in un locale, per cena. Un’istantanea che l’ex sindaco associa a una scena del romanzo di Sciascia, in cui la protagonista Rosa Nicolosi irrompe al tavolo dei boss per reclamare il marito scomparso («La metafora stava proprio nel fatto che si indicava in quel consesso un organo direzionale, il vertice dell’organizzazione politica» di scelte che Vaccaro e la sua coalizione pesantemente criticato).
La difesa di Vaccaro
Quelle parole – sottolinea il legale – sono state pronunciate nel contesto di un comizio e sono conseguenti ad accuse provocatorie ricevute poco prima dallo stesso palco “senza volere minimamente pensare di diffamare gli avversari”.
Normale dialettica seppure accesa nei toni da campagna elettorale.
Assunto che però la corte d’Appello respinge, convalidando le scelte del giudice di primo grado (Tribunale di Caltanissetta in composizione monocratica) poiché le accuse sarebbero state formulate da un palco e in pubblica piazza, con “tono particolarmente aspro e acceso” secondo quanto riferito dal teste Giovanni Immordino, all’epoca comandante della Stazione carabinieri di Marianopoli e che “a nulla vale il fatto che fossero state pronunciate in risposta a un precedente attacco politico”.
«In conclusione – si legge nelle motivazioni dell’appello – la Corte condivide le considerazioni del giudice di primo grado» secondo cui Vaccaro nel corso del suo comizio avrebbe superato i limiti consentiti «sfociando in quella condotta diffamatoria aggravata oggetto del presente giudizio».
Quattro giorni fa l’ultima pronuncia, quella della Cassazione. Ricorso respinto, vale la sentenza della corte d’Appello.
Stamane abbiamo contattato il legale di Montagna e Noto, l’avvocato Walter Tesauro, per una dichiarazione.
Avvocato, sentenza che può fare giurisprudenza?
«Pone senza dubbio un argine – dice – tra condotte che possono essere ammesse nel confronto politico, seppure acceso, e altre che invece devono essere ritenute senza dubbio illegittime. Se da un lato le critiche espresse attraverso i volantini dalla parte politica di Montagna sono state ritenute “accettabili” lo stesso non può essere riconosciuto a espressioni quali “cupola”, “capo m.” ovvero ai continui riferimenti al romanzo di Sciascia. Viene resa giustizia ad amministratori accusati ingiustamente».
«Dirò anche – conclude – che parole come quelle se sciorinate in pubblica piazza avrebbero potuto giungere in prefettura generando ben altri rischi per la prosecuzione della normale attività politica».
Con rischio di avvio di una procedura di scioglimento per mafia degli organi appena eletti al comune di Marianopoli.
Anche l’avvocato dell’ex sindaco Vaccaro, Rosa Mendola, anch’ella del foro di Caltanissetta, ci ha rilasciato un breve commento.
«In casi come questi – dichiara – è corretto dire che rispettiamo la sentenza, anche se rimane dell’amaro in bocca. Il mio assistito ha sempre affermato che la sua era una critica solo politica e non voleva accusare nessuno di collusioni mafiose. Forse è stata una vicenda un po’ amplificata. Ma ripeto, rispettiamo la sentenza».
(Nella grafica, sopra, in alto, l’ex sindaco Lillo Vaccaro e l’attuale primo cittadino, Salvatore Noto)