E ancora c’è chi non ci crede
di Alberto Drago
Paola ha 26 anni. Ogni mattina, per settimane, si è alzata con un peso sullo stomaco e un dolore nell’anima: la nonna, paziente oncologica, positiva al Covid-19. Si era accorta che qualcosa non andava vomitando sangue. Appresa la notizia Paola si è lasciata risucchiare da un vortice di paura e ansia temendo per la sua amata nonna, per i suoi genitori, per i suoi fratelli. Sono stati giorni difficili, lunghi, tormentati.
Luca ha 27 anni, è alto quasi due metri. Ha il fisico curato e possente di chi si allena tutti i giorni. Poi il Covid-19 l’ha messo ko: la febbre, i dolori, un profondo senso di abbattimento fisico e mentale. L’hanno preso tutti a casa, il virus: lui, suo padre, sua madre. La paura fortissima, ad ogni ora, in ogni minuto. Poi insieme alla temperatura e all’intensità della tosse è diminuita anche lei, la paura, che per giorni e notti non ha dato tregua.
Marta ha 31 anni. È in attesa di tampone, i tempi sono lunghi. Suo figlio ha preso il Covid-19 all’asilo, si è scatenato un focolaio, uno dei pochissimi a scuola in tutta Italia. L’ha trasmesso al papà, positivo al test. La mamma ha diversi sintomi: né gusto, né olfatto. Ma soprattutto ha un altro sintomo, la paura, perché il bimbo e il marito soffrono d’asma. E chi ha patologie respiratorie e contrae il Covid-19 rischia di più. Per fortuna, però, pare non siano sorte complicanze.
I nomi di questi giovani gelesi, tutti residenti da Roma in su, sono inventati. Non sono inventate le loro storie di convivenza con il Coronavirus. Storie durate settimane, laceranti settimane in cui insieme al dolore fisico e alla preoccupazione è venuto a galla tutto il resto. La paura del presente, le incertezze sul futuro che pesano come macigni.
No, l’isolamento domiciliare per chi è positivo al Covid-19 non è affatto una vacanza. Non c’è solo chi va in ospedale, nei reparti di malattie infettive o in terapia intensiva. Anche chi resta a casa, perché per fortuna sviluppa una forma non grave della malattia (o non la sviluppa affatto), soffre.
Si, soffre. Sono tutti giovani i protagonisti di queste tre storie. E hanno sofferto, tanto. Per il dolore personale e per quello dei propri cari.
Mercoledì sera a Gela, la manifestazione-farsa complonegazionista ha rischiato (e tecnicamente il rischio non è ancora scongiurato) di trasformarsi in un mega focolaio. Molti dei partecipanti erano senza mascherina, il distanziamento è andato a farsi benedire fin da subito. Come se non bastasse, c’è stata pure la violenza di alcuni facinorosi. Si dice così, no? “Facinorosi”. E per inciso, sottolineiamolo ancora una volta: le giuste proteste si condividono, la violenza si condanna. Sempre e a qualsiasi livello.
E c’è da riflettere anche sulle immagini consegnate dal weekend, con centinaia di persone a passeggio sul lungomare, tra un assembramento e l’altro davanti i bar della città, tra una mascherina appesa all’orecchio e l’altra sotto il mento, così, con grazia. Tanto mica siamo nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria.
Gela vive un momento molto difficile, come tante altre città in Sicilia, in Italia, nel Mondo. Anche da noi la più grave pandemia degli ultimi cento anni ha fatto e fa emergere i mille problemi di tanti anni di cattive amministrazioni e cattive abitudini, le mille questioni irrisolte, i mille “se” e i mille “ma” dinanzi a potenzialità straordinarie rimaste nell’oblio. Ma così non se ne esce. Non c’è stata mai nessuna comunità, ce lo insegna la storia, che sia venuta fuori da una tempesta senza essere unita. Dovremmo ricordarcene, e imparare. Utopia.
Servivano tre cose per evitare di tornare al punto di partenza: una comunicazione istituzionale chiara ed efficace, poche semplici regole da applicare a tutti i livelli, il buon senso dei cittadini specie laddove la legge era manchevole. In un’estate in cui ovunque si è fatto il bello e il cattivo tempo, come se le bare di Bergamo fossero un brutto sogno da dimenticare, tutto questo non c’è stato. Nemmeno i controlli, al netto di prese di posizione roboanti (“Arriva l’esercito”). Adesso il rischio di piangerne ulteriormente le conseguenze è altissimo. Perché il problema del Covid-19 è uno: il rischio sempre più concreto di saturazione degli ospedali. “Eh, vabbè, ma sono quasi tutti asintomatici o con pochi sintomi”. Vero, nella maggior parte dei casi è così. Ma più aumentano i contagi più aumenta il numero di chi ha bisogno di cure ospedaliere, ed è questo che può provocare la paralisi del sistema. Sta già succedendo, di nuovo: ci vuole così tanto a capirlo?
Forse però non tutto è perduto.
Potremmo ancora farcela, con uno spirito di solidarietà che durante il (primo) lockdown è stato fondamentale, proteggendo gli altri per proteggere noi stessi.
Potremmo ancora farcela, se il governo decidesse di parlare meno e sostenere davvero, con i fatti e subito, quei settori dell’economia flagellati dalla crisi pandemica.
Potremmo ancora farcela, se migliorando i nostri comportamenti (la gente in quarantena obbligatoria che continua a girare per la città…) permetteremo al virus di rallentare e al sistema sanitario di organizzarsi meglio in questa seconda ondata largamente attesa ma che, da buoni italiani, abbiamo comunque accolto impreparati.
Potremo ancora farcela, se…se. Perché poi ti fermi, ci pensi, e ti rendi conto che ancora c’è chi non ci crede.