Il valore assoluto della «legalità »? Parola magica e toccasana che fa rima con onestà ? No, un grande equivoco
di Redazione
Da qualche decennio è la parola magica, il toccasana per tutti i problemi, il parametro di ogni giudizio, l’ipocrita biglietto di presentazione di tanti politici.
Legalità, legalità, legalità…
Pestando lo stesso spartito qualcuno, forse per far rima, ha poi gridato: onestà, onestà, onestà!!! Il ritornello è lo stesso, parto delle medesime scuole di pensiero intrise di giustizialismo ipocrita e populismo forcaiolo, ma oramai tutti vi cogliamo la stonatura perché sappiamo com’è finita: una grottesca, ridicola impostura pronta però a riproporsi magari sotto altre spoglie come proprio oggi, ad esempio, potrebbero l’ossessione della pena certa (paranoia che non a caso accomuna i due così simili populismi, sino a ieri pure felici alleati di governo), il delirio dei reati che vanno puniti anche a distanza di secoli e quindi dei processi infiniti, eterni (vedi norme che aboliscono la abolizione prescrizione, non a caso allegramente votate da Cinque stelle e Lega).
Il tema è serio, forse anche ostico e impone un inquadramento più generale nell’ambito dello storico evolversi del rapporto tra Stato/Legge e società civile/cittadino.
L’idea di legalità deriva dal così setto primato della legge rispetto ad ogni altra funzione o volontà dello Stato, qui inteso come Stato-apparato e non Stato-comunità. È il principio cardine dell’ottocentesco Stato di diritto, per cui lo strumento e la forma legislativa costituisce il miglior regolatore possibile dei conflitti sociali ed economici, la miglior garanzia per i diritti e le libertà dell’individuo a fronte della costante minaccia che proviene dagli abusi dell’autorità costituita, dalla bulimia di ogni potere.
In quell’epoca si aveva fiducia nella legge perché si riconoscevano le capacità del legislatore, di quelle assemblee rappresentative chiamate appunto a scrivere i testi normativi.
Ma è mai esistito un legislatore onnisciente, previgente, oltremodo saggio e sapiente?
Secondo l’ottimismo tipico della temperie ideale e culturale del positivismo a cavallo tra l’otto ed il novecento e figlio, peraltro, del secolo dei lumi (…ricordate le mirabili, progressive sorti dell’umanità?), la risposta era senz’altro affermativa.
E, allora, forse era pure una giusta risposta: quella ottocentesca era una società connotata da valori generalmente condivisi, abbastanza semplice anche nella sua organizzazione gerarchica ed economica, con una leadership culturale ed economica pacificamente riconosciuta in capo alle classi borghesi e mercantili.
Così risultava possibile che il legislatore (cioè il Parlamento) del tempo approvasse leggi adeguate alla bisogna, semplici ed efficaci, generalmente condivise, corrispondenti alle aspettative dei cittadini.
Insomma, tanti anni fa ed in quella società che già da tempo non esiste più, ben poteva esserci un legislatore saggio, giusto, chiaro, capace, efficace, lungimirante e, quindi, ben giustificata l’idea secondo cui il principio di legalità, il primato delle legge costituisse il collante unico, il parametro esclusivo di ogni relazione, giudizio, azione sociale e politica.
Ma può dirsi lo stesso oggi? In questa nostra società contemporanea così complicata, articolata, frammentata e contraddittoria, priva di valori condivisi e di classi dirigenti riconosciute, mutevole in modo repentino, “liquida” secondo l’analisi di uno dei più grandi filosofi del novecento?
Ammesso pure che sia prima mai esistito, già da decenni il legislatore buono e saggio a cui taluno vorrebbe farci credere non dà più segni di vita. Anzi la relativa funzione si è talmente degradata (basti pensare all’abuso della legislazione di emergenza, ai voti di fiducia che stroncano il dibattito parlamentare, alle leggi approvate sull’onda delle emozioni delle masse, degli istinti collettivi più irrazionali) che non può più far scandalo che in Parlamento siedano semianalfabeti, soggetti mai sperimentati nella rappresentanza di organizzazioni e di idee.
È questo l’equivoco “sistemico” in cui furbamente guazzano, spesso con loro personale profitto, tutti gli strombazzanti paladini della così detta “legalità”: una strumentale deificazione della bontà di ogni legge, di ogni norma quando invece lo strumento legislativo ha, almeno oggi, possibilità e capacità molto limitate, persino pericolose. Forse che le leggi razziali non fossero state, pure esse, “leggi” sia nella forma che nella sostanza e che proprio la “legalità” non volesse il loro puntuale rispetto?
Che significa tutto questo?
Che bisogna muoversi ed operare contro le leggi costituite, nella piena illegalità?
Assolutamente no. Le leggi vanno rispettate ma non possono essere oggetto di un culto: i sacerdoti della religione della legalità hanno innalzato agli onori degli altari un falso idolo ed hanno messo in scena riti in cui solo loro ci hanno guadagnato e ci guadagnano.
La “legge”, la legalità non può costituire il guardaroba per connotare posizioni e parti politiche, né l’armamentario per costruire rapporti di forza o addirittura cordate e carriere.
La “legge” rimane uno strumento importantissimo, per noi (ma non per tutti perché, ad esempio, gli inglesi da secoli vivono e prosperano senza un sistema di leggi) indispensabile, ma non è certo la chiave di volta dell’universo intero, il motore degli astri e delle stelle, il senso della vita di ogni uomo e dell’umanità tutta così come qualcuno vorrebbe fare intendere.
Solo uno strumento, utile se duttilmente “laico” per il progresso ed il benessere degli uomini.
Bisogna quindi avere consapevolezza del valore alto ma pur sempre relativo della legge, delle leggi, della “legalità” e bisogna, quindi, diffidare dai masianelli di turno che declamano parole magiche i quali, come sempre, parlano per mascherare i problemi -e non certo a risolverli- ed a regolare qualche conto, ovviamente a favore di loro stessi.
Ma, allora, se finalmente smascheriamo l’intoccabile feticcio del principio di legalità, se relativizziamo persino le leggi, e con esse lo “Stato” da cui quelle promanano, quali valori sociali “assoluti”, quali possibili robuste fondamenta ci rimango per (ri)costruirvi la nostra tranquilla, pacifica, operosa convivenza civile?
Il discorso è ancora lungo. Ci sarà tempo, forse, per tornarvi.