Norme rigide o libertà di coscienza?
di Redazione
Gli articoli di stampa che hanno commentato il modo come una coraggiosa medico anestesista ha scoperto che il coronavirus si stava diffondendo in Italia hanno evidenziato una drammatica ed incredibile verità: “…..L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane” (da LaRepubblica del 5 marzo scorso).
Infatti, solo grazie ad un medico che ha avuto la determinazione ed il coraggio di “violare” quelle regole, si è capito che l’epidemia era già diffusa e si sono guadagnati giorni che, speriamo, si rileveranno preziosi per la sconfitta del coronavirus.
E’ accaduto questo: in base ai protocolli della OMS e del nostro Ministero (o, se volete, in base alle famigerate “linee guida” dei trattamenti sanitari) l’accertamento dell’infezione da coronavirus (il così detto tampone) andava fatto solo a chi, oltre a manifestare sintomi, proveniva dalla Cina ovvero aveva avuto contatti con chi arrivava da quel Paese.
Una disposizione troppo rigida, persino ottusa, che ignorava la possibilità -che purtroppo si è tragicamente verificata- che il virus da noi potesse arrivare per vie impensabili ovvero attraverso una di quelle falle che nessuna persona di buon senso -tra cui evidentemente non rientrano i nostri ministri- può credere di poter chiudere del tutto.
Una disposizione, soprattutto, che contro ogni comune logica, contro il buon senso, si illudeva che bastasse seguire i viaggiatori dalla Cina o i loro contatti per controllare il virus e che, quindi, programmava gli accertamenti solo secondo una logica “geografica”, tralasciando ogni altro elemento.
Insomma una indicazione che non lasciava spazio allo apprezzamento del complessivo quadro clinico del paziente che solo il medico (o i medici) curante può e deve svolgere secondo sensibilità esperienza e professionalità.
Ancora una volta l’illusione fideistica nella efficacia, nel valore della “regola” precostituita, nella “legge” generale ed astratta, ha prodotto i suoi frutti avvelenati.
Una stolta illusione che è nata, maturata e si è radicata in un contesto “ideologico” di supremazia della regola -e di chi la emana, in primo luogo lo Stato- sulla coscienza, sulla responsabilità dell’individuo, dell’uomo, del professionista. Una impostazione che discende da una visione autoritaria, assorbente, tutt’altro che laica dello Stato e che sconta ancora il “virus” delle ideologie totalizzanti affermatesi tra l’otto ed il novecento secondo cui l’individuo è solo un numero, o un sottoposto mentre proprio lo Stato, e prima di esso il “partito”, è in grado di organizzare la società nel miglior modo, di garantire felicità quasi come un Paradiso in terra.
Credo che, da questa esperienza terribile esperienza, quando e se mai ne usciremo, dovremo trarre alcuni insegnamenti:
1) le regole rigide, e la fideistica loro osservanza, producono -spesso- nefaste conseguenze;
2) per una società sempre più moderna ed evoluta, incredibilmente complessa globalizzata ed interconnessa, più che una “ideologica” fiducia in un ente superiore che impone schematici comportamenti predeterminati, serve flessibilità, elasticità, valorizzazione della responsabilità dell’individuo e delle sue scelte secondo prudenza scienza e coscienza;
3) proprio in materia sanitaria, il sistema imperniato sulle così dette linee guida dei protocolli diagnostici e dei trattamenti sanitari non devono mai vincolare la condotta dei medici curanti i quali devono sempre mantenere la possibilità di apprezzare il singolo caso con adeguati margini di discrezionalità da usare secondo il loro raziocinio, il loro senso di responsabilità e la loro libera coscienza di professionisti.