Strage di via D’Amelio, tra depistaggi e mezze verità Il ricordo di Borsellino
di Desideria Sarcuno
È il 19 Luglio 1992: poco prima delle cinque di pomeriggio, un’autobomba piazzata in via Mariano D’amelio, esplode, uccidendo il giudice Paolo Borsellino. Con lui perdono la vita i cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto è l’agente Antonino Vullo, che al momento dell’esplosione stava parcheggiando una delle auto della scorta.
Tuttavia, mentre la mafia festeggia dal carcere dell’Ucciardone la sua vittoria contro quei giudici che “avevano ficcato il naso un po’ troppo” (nel maggio dello stesso anno era stato ucciso il giudice Falcone), qualcosa cambia per sempre. Da quelle stragi, infatti, il Paese si risveglia da un torpore che per troppo tempo aveva preso il sopravvento. «Fuori la mafia dallo Stato», riecheggia nelle piazze, lenzuoli bianchi vengono esposti fuori dalle finestre.
Una conseguenza che la mafia, forse, non aveva previsto.
Le storie degli attentati mafiosi che hanno insanguinato la nostra bella isola (e non solo) le conosciamo tutti molto bene. Tuttavia, sapere e commemorare le vittime non basta. Non basta se continuiamo a vivere nel più totale disinteresse verso la realtà che ci circonda. Si, perché la mafia è una realtà con cui bisogna fare i conti.
Occorre dare un senso a quelle morti ingiuste, lo dobbiamo alle famiglie di coloro che hanno perso la vita e che meritano giustizia, ma soprattutto meritano la verità.
Una verità che a oggi non c’è.
Non a caso la strage di via D’Amelio, viene descritta come “la storia del più grave depistaggio di Stato”. Basti pensare ai poliziotti indagati per aver “inquinato” le indagini, o alla sparizione dell’agenda rossa del giudice Borsellino, in cui erano annotate preziose informazioni, mai più ritrovata. Il processo, giorni fa, si è concluso con l’assoluzione di uno dei tre imputati; reato prescritto per gli altri due. L’accusa aveva chiesto pene pesantissime.
Da quei fatti ha preso forma il Movimento delle Agende Rosse, nato su iniziativa di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato rimasto ucciso. Lo scopo è quello di far luce sulle verità sulla dietro alla strage di Via D’Amelio, e di mantenere viva la memoria di Paolo, e di tutti coloro che hanno combattuto in prima linea contro la criminalità organizzata.
Sono stati numerosi i processi, i giudizi che hanno condannato boss e falsi pentiti, ma troppi i vuoti da colmare.
Dinamiche di difficile comprensione, specie per chi in questi attentati ha perso un padre, un fratello, o un figlio.
Così la vedova del giudice, Agnese Piraino Borsellino, sceglie di celebrare i funerali del marito privatamente, rifiutando il rito di Stato, dicendo no alla scenografia e alla formalità del potere. Lo stesso Stato aveva abbandonato il marito, lasciandolo senza protezione, e rivelandosi del tutto “impotente”, come lo definirà lei stessa.
Quest’ultima, in una delle sue dichiarazioni, ricorda: “Paolo mi disse: ‘materialmente mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere. La mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno’. Queste sono parole che sono scolpite nella mia testa, e sino a quando sono in vita non potrò dimenticarle”.
Paolo Borsellino sapeva di avere i giorni contati. Considerava Falcone il suo scudo, e morto lui, era rimasto da solo a lottare contro un mostro più grande di lui.
Ma questo non lo ha mai fermato.
«Io accetto la… ho sempre accettato il… più che il rischio, la… condizione, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, a un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli.
Il… la sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in, come viene ritenuto, in… in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me.
E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare… dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro.»
(Paolo Borsellino, intervista a Sposini, inizio luglio 1992)